La lezione di Silone sulla questione meridionale di Domenico Birardi

Se un lettore meridionale dovesse imbattersi – fosse anche per caso, magari in una libreria di provincia – in Fontamara, capirebbe sin da subito le ragioni che hanno fatto di Ignazio Silone (al secolo Secondino Tarquilli) uno dei più abili narratori del Mezzogiorno.
Fontamara non è un’opera d’arte nel senso linguistico ed estetico del termine: non utilizza orpelli musiliani, si congeda prima di iniziare da quel prosastico vezzo poetico comune a molti narratori dell’epoca, e instaura un apatico rapporto con le descrizioni, quasi volesse alteramente minimizzarne la funzione – alcuni luoghi sono tracciati come in un abbozzo distratto, forse con il fine di delegare al lettore la delizia di immaginarli di sana pianta. Importa poco dei particolari e delle sottigliezze di stile quando ci si sta occupando di carne viva e della questione meridionale; questo pragmatismo di penna Silone sceglie di non celarlo dietro artifici di sorta, ma di renderlo esplicito, evidente.

Malgrado la sua lineare crudezza, percorrendo quelle pagine così asciutte è impossibile non rimanere intrisi della drammaticità del coacervo di sofferenze, afflizioni e tragedie del popolo del Sud. Il paese di Fontamara è lo specchio della povertà meridionale, di tasca e di anima, della prima metà del Novecento; e personaggi come Berardo Viola, Scarpone, Don Circostanza, Don Carlo Magna e altri sono cliché spogliati della loro pudicizia retorica e restituiti al lettore nella loro semplice, sfacciata ruvidezza esistenziale. Siamo qui mille miglia lontani dallo stile del romanzo esistenziale del primo Novecento e dalla postmodernità (a quei tempi solo intravista): Silone non cerca di trovare il Sud attraverso il romanzo, ma trova il romanzo per mezzo del Sud, consegnando il suo estro narrativo nelle mani della realtà più dura e spinosa. E quindi la scelta dello stile essenziale, aspro e ispido, che a tratti potrebbe tradursi nella parvenza di una genuina inconsapevolezza dei personaggi davanti alla complessità degli argomenti affidatigli. Parvenza, appunto, perché in realtà l’animo stoico di ogni cafone siloniano è l’intelaiatura su cui posa la capacità di affrontare l’ingiusto sadismo del caso e la condizione di subalternità impostagli dai cittadini.

RITORNARE A FONTAMARA – Lo scenario sociale del Mezzogiorno oggi è cambiato, i paesini come Fontamara rappresentano una tenera, crepuscolare eccezione all’omologazione tecnica. Eppure la questione rimane sempre la stessa, benché con caratteristiche e drammi differenti. La «questione meridionale» è quindi l’allegoria di un bozzolo connaturato alla cartina della penisola, solco cicatrizzato d’un macabro scalpo fatto al sogno di chi la desiderava «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor».

Fontamara oggi ha i capelli incanutiti dal tempo: è stato scritto nel 1933 durante l’esilio svizzero di Silone. E ciononostante, dall’odore inacidito di quelle pagine librano tonanti due imperativi: ritornare per quelle vie e ricostruire l’ethos del Sud. Ritornarci… ricostruire… ora!
Tornare a Fontamara significa esserci già stati, aver già respirato l’aria torbida della miseria e aver per tempo lusingato il sogno di un avvenire migliore. Ritornare a Fontamara per il Sud è come sfogliare un album di vecchie foto, guardandosi dritto nello specchio della storia; spazzare via con un colpo di memoria e d’orgoglio il grigio cumulo di polvere che la postmodernità e la tecnica – alleate tremende! – vanno disperdendo in ogni dove.

Che i meridionali peregrinino di nuovo a Fontamara allora. Ma con un’avvertenza importante: Fontamara è tutta una metafora, così come lo sono i suoi personaggi e gli eventi che si stagliano nella trama. Cosicché, come sovente accade nella narrativa, le metafore hanno ceduto alla civetteria del dover-essere e si sono risolte nel sussurrare al lettore una certa qual forma di idea-progetto. Tuttavia, in un periodo postmoderno come il nostro, derubato dei suoi ideali e pregno dei suoi effimeri, mortiferi esempi sub-umani, questo non è un aspetto del tutto negativo. La pedagogia narrativa, quando non compiuta per soddisfare un vezzo moralista (e non è il caso di Silone), è una fabbrica di esempi di vita e di morale, oltreché la fucina di un’eticità dinamica e adattabile.

INCLEMENZA – Che nel Mezzogiorno ci sia sempre stata una ritrosia alla partecipazione politica, non è di certo un mistero. La ragione di tale avversione per il coinvolgimento probabilmente è da ritrovare nelle politiche borboniche e nel lungo stato di sudditanza a cui è stato soggetto il popolo meridionale. Questo aspetto, salva la breve parentesi risorgimentale, che a poco o nulla è servita, ha avuto una continuità con il regime fascista e si è consolidata nel corso dei decenni. Anche in questo caso, la capacità di Ignazio Silone di descrivere la negatività di tale costume emerge con plastica evidenza; e altrettanto eloquente, quando non ispiratrice, è l’idea-progetto che vi contrappone.

IN QUESTO LOCALE È PROIBITO PARLARE DI POLITICA.
Di locale pubblico a Fontamara c’era solo la cantina di Marietta. Innocenzo consegnò alla cantiniera un ordine scritto del podestà col quale le si comunicava che lei sarebbe stata ritenuta responsabile se nella sua cantina si fossero fatte discussioni politiche.
“Ma a Fontamara nessuno sa neppure che cosa sia la politica” osservò giustamente Marietta. “Nel mio locale nessuno ha mai parlato di politica.”
“Di che si parla, dunque, se il cav. Pelino tornò al capoluogo tutto infuriato?” chiese Innocenzo sorridendo.
“Si ragiona un po’ di tutto” riprese a dire Marietta. “Si ragiona dei prezzi, delle paghe, delle tasse, delle leggi; oggi si ragionava della tessera, della guerra, dell’emigrazione.”
Il frammento fa riferimento all’affissione di un nuovo ordine del podestà, consistente nell’assoluto divieto di fare discorsi di carattere politico nei locali pubblici. La pressoché totale ignoranza di Marietta e dei cafoni di Fontamara di cosa fosse la politica rende fulgida l’idea dello stato di obnubilamento in cui viveva la popolazione del Mezzogiorno.
“E di questo non si dovrebbe più parlare, secondo l’ordine del podestà” chiarì Innocenzo. “Non è ordine speciale per Fontamara, ma in tutta Italia è stato diramato quest’ordine. Nei locali pubblici non bisogna più parlare di tasse, di salari, di prezzi, di leggi.”
“Dunque, non bisogna più ragionare” concluse Berardo.
“Ecco, bravo, Berardo ha capito perfettamente” esclamò Innocenzo soddisfatto. “Non bisogna più ragionare: questo è il senso della decisione del podestà. Bisogna farla finita coi ragionamenti. E poi, siamo sinceri, a che servono i ragionamenti? Se uno ha fame, può nutrirsi di ragionamenti? Bisogna farla finita con questa cosa inutile.”

Cruda e diretta è la risposta di Berardo Viola: politica è semplice ragionamento, mera arte dell’esserci per il pensiero. Innocenzo La Legge, metaforica figura del funzionario governativo, esprime una delle massime che i cittadini del Mezzogiorno di oggi ben conoscono: con cultura e pensiero non si riempiono le tasche. Come le acque del Carso riemerge la funzione utilitaristica dell’azione e del pensiero, sia nelle condizioni di estrema miseria che nelle situazioni di opulenta ricchezza; agli estremi della condizione di potere l’uomo riscopre la sua dimensione più primitiva, animalesca: s’agisce per un interesse personale e diretto, oppure non s’agisce.

Berardo provvide ad affiggere il cartello, in alto, sulla facciata della cantina. La sua condiscendenza ci sbalordiva assai. Come se il suo atteggiamento non fosse già abbastanza chiaro, Berardo aggiunse: “Adesso, guai a chi tocca quel cartello.”
Innocenzo gli strinse la mano e voleva abbracciarlo.
Ma le spiegazioni che Berardo subito aggiunse, moderarono il suo entusiasmo.
“Quello che il podestà ordina da oggi, io l’ho sempre ripetuto” disse Berardo. “Coi padroni non si ragiona, questa è la mia regola. Tutti i guai dei cafoni vengono dai ragionamenti. Il cafone è un asino che ragiona. Perciò la nostra vita è cento volte peggiore di quella degli asini veri, che non ragionano (o, almeno, fingono di non ragionare).
L’asino irragionevole porta 70, 90, 100 chili di peso; oltre non ne porta. L’asino irragionevole ha bisogno di una certa quantità di paglia. Tu non puoi ottenere da lui quello che ottieni dalla vacca, o dalla capra, o dal cavallo. Nessun ragionamento lo convince. Nessun discorso lo muove. Lui non ti capisce, (o finge di non capire). Ma il cafone invece, ragiona. Il cafone può essere persuaso. Può essere persuaso a digiunare. Può essere persuaso a dar la vita per il suo padrone. Può essere persuaso ad andare in guerra. Può essere persuaso che nell’altro mondo c’è l’inferno benché lui non l’abbia mai visto.
Vedete le conseguenze. Guardatevi intorno e vedete le conseguenze.”

La risposta di Berardo disarma per la limpidezza e l’efficacia dei suoi concetti. Brevi, elementari e funzionali sono i motivi per cui i cafoni dovrebbero essere irragionevoli:

“Un essere irragionevole non ammette il digiuno. Dice: se mangio lavoro, se non mangio non lavoro” continuò Berardo. “O meglio neppure lo dice, perché allora ragionerebbe, ma per naturalezza così agisce. Pensa dunque un po’ se gli ottomila uomini che coltivano il Fucino, invece di essere asini ragionevoli, cioè addomesticabili, cioè convincibili, cioè esposti al timore del carabiniere, del prete, del giudice, fossero invece veri somari, completamente privi di ragione.
Il principe potrebbe andare per elemosina. Tu sei venuto qui, o Innocenzo, e tra poco, nella via buia, farai ritorno al capoluogo. Che cosa può impedire a noi di accopparti? Rispondi.
(…)
“Ce lo può impedire” continuò Berardo “il ragionamento delle possibili conseguenze dell’assassinio. Ma tu, Innocenzo, di tua mano, hai scritto su quel cartello che, da oggi, per ordine del podestà, sono proibiti i ragionamenti. Tu hai rotto il filo al quale era legata la tua incolumità.”

Probabilmente è proprio questa la prima lezione di Fontamara: l’inclemenza nei confronti dell’oppressore. La continua ponderazione tra costi e benefici, il supplizio matematico del calcolo umano ed esistenziale, oltreché la litania del «ne varrà la pena?» sono il legaccio contemporaneo del popolo del Sud d’Italia. Dinnanzi alla media ponderale del profitto personale e alla partita doppia della vita soccombe l’etica e vengono seppelliti gli ideali di emancipazione. L’idea-progetto che profonde dalle riflessioni di Berardo Viola è perciò questa: inclemenza nei confronti degli oppressori. E peregrinare per questa via dovrebbe essere un dovere per il popolo meridionale.

STOICISMO ATTIVO – Non si può comprendere a pieno la questione meridionale senza aver affrontato prima il concetto di tempo. Ciclicità contro divenire è la contrapposizione. Ciò che differenzia la cultura contemporanea da quelle antiche è proprio la rottura della ciclicità del tempo: da quando lo scorrere degli eventi smette di essere racchiuso in un disegno predeterminato – e da forze superiori e dalla volontà di un dio –, la potenza dell’uomo aumenta tanto quanto il suo smarrimento. Il divenire ha in grembo lo sgretolamento di ogni apriori escatologico.

Malgrado lo smarrimento generale, la cultura meridionale in ordine al concetto di tempo ha sviluppato un ibrido di terzo genere, una sorta di tempo anomalo. Il meridionale non concepisce il tempo ciclico – salvo il caso del religioso –, ma allo stesso tempo non si avventura nelle asperità del divenire. Il suo è un modo di concepire il tempo che sacralizza il destino senza chiudere interamente lo spazio alla speranza – il che è ben distinto dalla verecondia del religioso nei confronti di un disegno divino a lui oscuro. Il meridionale porge il dorso alle scudisciate del destino con attiva rassegnazione, restituendogli una fatale sopportazione che può essere riassunta in una sola parola: stoicismo.

Il tempo anomalo serpeggia in Fontamara alla stregua di un sottosuolo necessario, apodittico: è tempo anomalo quello dei cafoni che si rassegnano alla condizione di subalternità pur senza smettere di sperare in un miglioramento, così come è della medesima fattura il tempo che sorregge la vita di Berardo, sia nella prima che nella seconda parte.
Sebbene sia un concetto di tempo della medesima fattura, esso si presenta in una duplice dimensione: è passivo nel caso dei cafoni e della prima parte della vita di Berardo, dal momento che questi dimostrano di accettare la sorte capitatagli; mentre è attivo negli ultimi capitoli, che danno compimento al sacrificio di Berardo.

Proprio la concezione dello stoicismo attivo è la seconda lezione di Ignazio Silone. Berardo, che nella prima parte del romanzo aveva definitivamente deciso di accettare la condizione di subalternità imposta dai cittadini, sceglie risolutamente di agire contro il destino stesso. L’azione di Berardo è martirio umano e ideologico, ma anche calpestamento della logica di ponderazione esistenziale tra costi e benefici individuali: si combatte contro il destino nei limiti delle proprie possibilità, pur rischiando di perire.

IL SUD OGGI – Dinnanzi alla minaccia dello sradicamento della sua cultura, il Mezzogiorno si trova ad affrontare una questione nella questione. Il dominio tecnico e la postmodernità cospargono di ceneri grigie e uniformi tutto il sottosuolo culturale che sino a qualche decennio fa costituiva l’ethos meridionale. Inoltre, le nuove politiche governative rischiano di porre ai margini il divario tra Nord e Sud, declassando la questione meridionale ad affare di mera responsabilità amministrativa. Se il popolo del Sud non ripercorrerà le vie della sua storia, ricostruendo il suo ethos, rischierà di soccombere sotto la scure dell’omologazione.
Ignazio Silone forse aveva previsto il rischio della rassegnazione passiva, e perciò ha lasciato a Scarpone trovare una sintesi alla sua analisi. Sulla scelta del titolo da attribuire al nuovo giornale dei cafoni, questi ha già la sua ferma, fermissima idea: «Che fare?». E una volta messi tutti d’accordo sul titolo, s’interrogano sugli articoli.

Scarpone fu d’accordo, ma propose un’aggiunta: “Hanno ammazzato Berardo Viola, che fare?”
“C’è nel titolo “che fare?” osservò Michele.
“Non basta” rispose Scarpone. “Bisogna ripeterlo. Se non si ripete, il titolo non vale nulla. Anzi è meglio levarlo. “Che fare?” Bisogna ripeterlo in ogni articolo. “Ci han tolta l’acqua, ‘che fare?’. Capite? Il prete si rifiuta di seppellire i nostri morti, ‘che fare?’ In nome della legge violano le nostre donne, ‘che fare?’ Don Circostanza è una carogna, ‘che fare?’

Ecco, il Sud dovrebbe cogliere la sintesi di Scarpone. La tecnica rischia di sradicare la nostra cultura e l’autonomia differenziata rischia di confinarci nella nostra povertà, che fare?



Tratto da  " La lezione di Silone sulla questione meridionale "  di Domenico Birardi 

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